La Teoria della Dislocazione di Alexander: la dipendenza come un modo di adattarsi alla frammentazione sociale ed alla dislocazione individuale
La visione biomedica della dipendenza come condizione morbosa che abolisce il controllo volontario sull’uso di una droga, di una sostanza psicoattiva o di un comportamento disfunzionale ricorrente, non può essere assimilabile esclusivamente ad una visione biomedica del sentire e dell'agire umano. Allo stesso modo tuttavia, sembra impossibile sostenere una concezione della dipendenza come condizione interamente morale, come vizio, vale a dire come schema di comportamento in cui sono mantenute totalmente integre la responsabilità, l’autonomia e il controllo sull’uso delle sostanze. I soggetti che sviluppano una dipendenza infatti manifestano spesso chiare intenzioni di smettere e mettono in atto concrete azioni per arrivare alla guarigione, ma finiscono per ricadere a dispetto delle buone intenzioni e delle strategie messe in campo.
La concezione biomedica della dipendenza si concentra sulla sostanza, considerata capace di indurre trasformazioni croniche nel sistema nervoso centrale tali da sequestrare i centri cerebrali che mediano i processi emotivi, motivazionali e dell’autocontrollo. La dipendenza in questo senso è considerata un processo patologico che si incarna in una singola persona, un fatto patologico individuale che occorre all’interno di un insieme di processi sociali e materiali considerati funzionali, dentro ad un sistema di relazioni giudicate sane e tra individui ritenuti normali.
Sembra evidente dunque che occorra una prospettiva polifattoriale che però si osservi rilevando una determinante comune.
Bruce Alexander, nel volume The Globalization of Addiction: A Study in Poverty of the Spirit pubblicato nel 2010, sviluppa la teoria della dislocazione. Questa idea pone l’accento sulle cause psicosociali, soprattutto sulle condizioni materiali ed i modi con cui attualmente si svolge e si riproduce l’esistenza umana e vede la dipendenza come un modo di adattarsi ad alcuni aspetti disfunzionali caratteristici della modernità, in particolare la frammentazione sociale e la dislocazione individuale.
[i]. dislocazione si riferisce alla "compromissione della stabilità e della profondità delle connessioni tra individui e le loro famiglie, amici, luoghi di origine, società, tradizioni, abitudini, religioni". Da un lato la dislocazione ha favorito l’affermazione dell’individuo, delle sue libertà, delle possibilità di realizzazione come singolo, della sua creatività, che sono probabilmente i tratti che distinguono l’uomo contemporaneo rispetto al suo passato. Questa straordinaria moltiplicazione delle possibilità esistenziali si è ottenuta a caro prezzo. La dislocazione mina infatti l’integrazione psicosociale e di conseguenza le normali basi dell’identità umana, le quali, come dimostrano anche le [ii] teorie cognitive e sociali si basano soprattutto sui rapporti affettivi, sui legami sociali, sull’appartenenza a una comunità e sulla condivisione di prassi e valori. La frammentazione psicosociale ostacola la costruzione di sensi e significati, l’individuazione di finalità esistenziali chiare; sottrae i riferimenti che danno valore e spessore alle esperienze e alle memorie. In questo modo diventa più complesso sperimentare il senso e la forza emotiva dell’esistenza, che si fa per questo piatta, vuota e insoddisfacente
L’integrazione psicosociale si realizza nella profonda interdipendenza tra individuo e società e normalmente cresce e si sviluppa durante la vita di ogni persona. L’integrazione psicosociale riconcilia il bisogno delle persone per l’appartenenza sociale con i loro bisogni ugualmente vitali per l’autonomia e la realizzazione individuale. L’integrazione psicosociale è allo stesso tempo una esperienza interiore di identità, di significato e un insieme di relazioni sociali esterne. Sviluppare una profonda interpenetrazione tra se stessi e la società consente a ciascuna persona di soddisfare contemporaneamente sia i bisogni individualistici sia i bisogni della comunità: essere liberi e ancora appartenere a un insieme di persone. La dislocazione è la permanente mancanza di integrazione psicosociale. Possono soffrirla le persone svantaggiate economicamente, quelle che vivono ai margini della società, ma anche le persone costrette per lavoro a spezzare i legami di affetto e i luoghi di origine; senza radici, ovvero anche le persone schiacciate dai ritmi lavorativi, senza più spazio per le relazioni; i figli che crescono con entrambi i genitori al lavoro per larga parte della giornata, lontano da ogni altro parente, senza relazioni significative di vicinato.
La dislocazione è dolorosa per l’individuo e distruttiva per la società: trauma individuale e disgregazione sociale si alimentano reciprocamente, in modo circolare.
La povertà materiale spesso accompagna la dislocazione, ma non sono assolutamente la stessa cosa. Sebbene la povertà materiale possa rendere disfunzionali individui e famiglie isolati, può essere efficacemente sopportata da persone che la affrontano insieme e dentro a una comunità integrata. D’altra parte, le persone che hanno perso la loro integrazione psicosociale tendono a smarrirsi, ammalarsi, sviluppare disturbi del comportamento, o sentirsi degradate anche se non sono materialmente povere. Hanno perso i loro riferimenti, il tessuto da cui traevano la loro identità e i loro significati e fuori da un’appartenenza condivisa queste persone possono perdere, assieme all’identità il loro senso di dignità, provare un senso di negazione e la vergogna che a questo sentimento spesso si accompagna. Né il cibo, né un’abitazione, né l’agiatezza possono garantire il benessere a chi è costretto a vivere nella frammentazione e nella dislocazione. Per queste ragioni, in contrasto con la povertà materiale, Bruce Alexander definisce la dislocazione una “povertà dello spirito”.
La dislocazione, la frammentazione dell’Io e i disturbi dell’autocontrollo
D’altra parte la frammentazione sociale, l’isolamento, la dislocazione tendono a riflettersi sulla frammentazione dell’Io, una condizione spesso associata ai disturbi del comportamento, soprattutto a quelli del controllo del comportamento, come sono le dipendenze. L’autocontrollo è infatti anche un’espressione della coerenza e della coesione dell’Io, delle sue dinamiche, delle sue narrazioni, degli obiettivi e dei valori che si rappresenta e codifica, delle motivazioni. Un Io frammentato, privo di una trama coerente di riferimenti, valori, significati, senza una storia coerente dei suoi legami, del suo passato e del suo possibile futuro è più facilmente agito dalle sensazioni e dalle forze istantanee che si affacciano alla coscienza: emozioni, impulsi, appetiti; tende per questo a reagire in modo riflesso agli stimoli esterni o a cercare la gratificazione immediata anche quando rischiosa, è dunque maggiormente incline a sviluppare un problema con le sostanze psicoattive.
Viene prima la società del cervello: La dipendenza come adattamento alla dislocazione
Ma la dipendenza, secondo Alexander, non è una condizione patologica. L’uso di sostanze, anche quello problematico, vanno considerati come un tentativo di adattarsi alla dislocazione profonda e protratta, a condizioni psicosociali altrimenti intollerabili. Alexander sostiene che il primato dato alla prospettiva medica, alla focalizzazione sull’individuo, sul suo corpo, sul suo cervello, hanno la colpa di aver ignorato gli effetti della dislocazione sociale, le cause e le dinamiche sociale ed economiche che la stanno determinando. Per questo le strategie di intervento basate sulla concezione biomedica falliscono nella clinica e nella prevenzione. Le cause fondamentali secondo Alexander vanno rintracciate e combattute nei processi socioeconomici che producono frammentazione e dislocazione.
Riferimenti bibliografici
[i] Polanyi, K. (1944). The great transformation: The political and economic origins of our times. Boston, MA: Beacon
[ii] Tolman, C.W. (2013). Sumus ergo sum: The psychology of self and how Descartes got it wrong. In W.E. Smythe (Ed.), Toward a psychology of persons. New York, NY: Psychology Press (pp. 3-24)